Ritorna don Federico che questa volta ci offre una doppia sorpresa: attraverso la lettera degli immancabili Auguri Pasquali, ci regala una ricca e per certi versi inedita descrizione di don Imerio, con il quale aveva condiviso tanti anni di missione in Guatemala.
“Carissimi, si avvicina la Pasqua e vi mando un forte abbraccio con l’augurio di questa diocesi di san Josè, del vescovo Arturo e delle Comunità che sto accompagnando. Gesù ci accoglie la nostra morte nella sua morte e ci fa rinascere con la sua risurrezione. È la Pasqua che sta vivendo don Imerio e a lui voglio fare un augurio di tutto cuore, grato di tanti anni di amicizia e di testimonianza ricevuti”.
Se è vero, come credo, che i poveri ci apriranno la porta del paradiso, mi immagino la festa che c’è in cielo e che folla di persone di Credera, di Santa Maria, del Venezuela e del Guatemala lo sta accogliendo. Primo fra tutti don Pino, applaudendo con le sue manone e gridando: “Imerio, Imerio”. Questa volta il festeggiato non dirà, come faceva sempre: “stüpet, piàntala”, in rigoroso dialetto cremasco, ma accoglierà con gioia le effusioni dell’amico, perché almeno in cielo possiamo permetterci di sentire e vivere le nostre emozioni.
Piccolo grande uomo. Con coraggio da leone e paure da bambino. Burbero e tenero. Ci voleva un po’ di tempo per scoprire dietro la scorza ruvida e il tratto diretto una dolcezza speciale, fatta di attenzione e finezza. Credo che l’intuizione evangelica di “scegliere il povero come Signore” sia stata la sostanza della sua spiritualità. Un amore sodo, fedele ed esigente, con sé e con gli altri. Criterio di scelte e di giudizio, senza concessioni e cedimenti. Forse gli unici cedimenti affettivi se li è permessi con Pedrito, suo figlio del cuore, che adesso avrà bisogno di trovare sicurezza e progetto, senza la mano forte del papà. Volentieri mi prendeva in giro. Era il suo modo di salutarmi, con uno sguardo sornione e un sorriso compiaciuto. Gli dicevo che lui e Pino erano come il Gatto cieco e la Volpe zoppa, e Pinocchio, a turno, Ermino, io o Roberto. E lui rideva. “Ma, Federico, cosa dici?”, sempre rigorosamente in italiano. E sentivo che mi voleva bene ed era contento di vedermi.
Non ero in Guatemala quando vissero con Pino e Rosolino i primi anni a Escuintla, in piena dittatura. Avevano scelto di stare in una diocesi che era rimasta solo con il vescovo e pochi agenti di pastorale, pur sapendo del clima di violenza e di insicurezza. Dai racconti risulta che Imerio in quegli anni visse anche momenti di pericolo per sé e in alcune occasioni dovette correre ai ripari. Divenuto parroco di Palin il suo cuore registrò subito una nuova passione: gli indigeni Poqomam, la maggioranza etnica della sua parrocchia. Parlavamo a lungo delle culture indigene. Il suo anelo era di difendere e promuovere la vita, l’identità, la lingua, la religiosità, le tradizioni, le strutture sociali, la terra del popolo indigeno. Fin dall’inizio lo preoccupava la situazione sociale ed economica della gente ed esortava a partecipare onestamente nelle cooperative di produzione di caffè, di credito e risparmio. Aiutava famiglie povere, comprava appezzamenti di terreno per chi non aveva nulla. Offriva nelle strutture della casa parrocchiale (il Convento) laboratori di taglio e cucito, di dattilografia e altri per le donne e le ragazze.
E poi la scelta più impegnativa, anche economicamente, per lui: la Scuola parrocchiale, prima per gli adulti, poi per giovani, fino ai ragazzi e ai bambini. La casa di Imerio era come una piazza dove andavano e venivano persone di ogni età che si salutavano e cercavano ognuna il proprio posto, un’aula di scuola, il laboratorio, l’incontro di catechesi, l’ufficio del parroco. Quanti giovani hanno studiato all’università con l’aiuto del Padre? A condizione, quasi sempre rispettata, che poi tornassero come professori e maestri alla Scuola che li aveva educati per restituire alla propria gente il beneficio ricevuto. Grande impegno, fedele e cocciuto, ed anche grande preoccupazione e sofferenza. Quando le cose non andavano Imerio soffriva davvero e si chiudeva un po’. Soprattutto quando vedeva l’ambivalenza della promozione che diventava potere, delle tradizioni religiose che producevano povertà per le spese, secondo lui eccessive, nelle feste dei Santi, dell’impegno politico che degenerava in corruzione, degli arrivati che sfruttavano i più poveri dello stesso popolo. A volte si chiedeva se avesse valso la pena lottare tanto e se il sogno della giustizia e della liberazione fosse stato inutile… ma si riprendeva subito.
In questi ultimi anni, dall’Uruguay lo chiamavo e ci siamo fatti delle belle chiacchierate. Quando il vescovo l’ha nominato Vicario generale mi sono preso una bella rivincita e l’ho sfottuto per bene. Ogni tanto i toni erano un po’ tristi. La nostalgia di altri tempi, le nostre solitudini, il dilagare della violenza e dei poteri occulti, gli acciacchi dell’età, le incomprensioni con la chiesa locale, le preoccupazioni per Pedrito, il ricordo degli amici…
Se ne va un altro amico, facendosi presente in altro modo. Si unisce alle rete di amici e amiche, di Santi e Sante che dal cielo ci accompagnano. A loro affidiamo questa piccola esperienza missionaria della diocesi di Crema.
Buona Pasqua, Imerio! Buona pasqua a tutti voi!
Don Federico Bragonzi